Carmen e il gatto nero

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Carmen si affacciò alla finestra e vide, sui tetti della casa di fronte, il gatto nero. Era piuttosto grosso, e il suo pelo lucido sembrava a brillare nella luce incerta del mattino. Il gatto guardò per un attimo verso di lei, e Carmen intravide il lampo giallastro degli occhi, poi rivolse nuovamente la sua attenzione a quello che succedeva al piano di sotto.

La facciata del palazzo era in ristrutturazione e sull’impalcatura Antonio era di pessimo umore. In qualità di manovale semplice gli toccava il turno di prima mattina, e come se non bastasse, c’era quella bestia.

«Vai via, maledetto, vattene a portar sfiga da un’altra parte!», urlò in direzione del gatto, agitando la cazzuola e sporgendosi verso il cornicione. Distratto dalla bestia, urtò col piede un grosso pennello poggiato sull’impalcato e lo fece volare nel vuoto. «Maledizione!» Antonio era davvero esasperato.

Il pennello però era rimasto in bilico fra i tubi, lì, un poco più in basso. Antonio si stese a pancia in giù sul piano dell’impalcato cercando di recuperarlo, ma non ci arrivava. Mancavano giusto quattro dita. Si guardò intorno: il capomastro non era ancora arrivato. Sganciò il moschettone dell’imbrago di sicurezza e riprovò, sporgendosi un po’ di più. C’era quasi, ormai le sue dita sfioravano il manico del maledetto pennello. Spingendo in avanti con la punta dei piedi cercò di allungarsi il più possibile, fino a sporgere con il petto dal ponteggio. A quel punto, però, i suoi piedi si sollevarono, lui perse l’equilibrio e cadde in avanti. Urlò, si sbracciò cercando un appiglio, ma agguantò solo aria, il suo corpo fece una mezza rotazione in volo e Antonio atterrò di schiena sulle punte dell’inferriata che cingeva il palazzo.

L’urlo di una donna che passava per strada fece aprire molte finestre lungo la via, mentre Carmen rimase ammutolita.

Il gatto distolse lo sguardo e si avviò lentamente, con la coda dritta, nella direzione opposta.

Manuel era in ritardo quella mattina. Doveva raggiungere l’Università in tempo per la lezione di Analisi, e se non si fosse sbrigato sarebbe rimasto intrappolato nel traffico. Il professore era un vero fissato, se uno studente arrivava cinque minuti dopo le otto non lo faceva più entrare. «Come arrivo puntuale io, così potete fare anche voi», ripeteva. Fanculo. Manuel svoltò con la sua Yaris in una traversa che sperava gli avrebbe fatto risparmiato un po’ di tempo, e accelerò lungo la via deserta. Lanciò un’occhiata al cellulare: un nuovo messaggio WhatsApp. “Buongiorno, Manuel, già per strada?”. Alessia, la ragazza che aveva conosciuto un paio di giorni prima. Manuel sorrise, quel messaggio mattutino prometteva sviluppi interessanti. “Sì, piccola, tu invece sei ancora sotto le coperte, scommetto” digitò, maledicendo mentalmente il furgoncino scuro che sembrava muoversi lentamente, in fondo alla via. «Muoviti, togliti dai piedi, su, dai!» urlò. Bip. Nuovo messaggio: “Già, hai proprio indovinato. Preferiresti essere qui?”. Manuel chiuse gli occhi. “Eccome!” pensò, poi cercò una frase brillante da mandare in risposta ad Alessia.

Alla guida del furgoncino, Andrea pensava due cose. La prima era che dopo una sola consegna era già in ritardo. L’algoritmo che ne sa, di com’è fare il corriere, pensava. Tempo fisso per ogni pacco, e arrangiatevi. Che ne sa, l’algoritmo, di quando ti capita la signora anziana che prima non capisce, poi ti chiede di aspettare perché vuole darti la mancia, poi non trova il borsellino, poi… Dieci minuti aveva perso, per due euro di mancia. La seconda cosa che turbava Andrea era che gli scappava la pipì. Anche di quello, all’ algoritmo non importava nulla. Fermarsi in un bar, neanche a pensarci, avrebbe peggiorato il ritardo proprio mentre il traffico aumentava. Andrea strinse i pugni e diede un’occhiata al navigatore: ancora una o due traverse? Con la coda dell’occhio percepì un movimento rapido, si girò e vide il grosso gatto nero attraversare di corsa la strada proprio davanti a lui, così vicino che gli parve di scorgere il bagliore giallo degli occhi. Fu l’istinto, solo l’istinto a fargli inchiodare i freni di colpo, come se da quello dipendesse il mondo intero. Va bene tutto, ma investire un gatto nero proprio no!

Manuel prese il cellulare, ancora incerto su cosa rispondere ad Alessia. “Quasi gli mando un vocale” pensò, ma poi lei l’avrebbe ascoltato? Rilesse l’ultimo messaggio della ragazza. Meglio scrivere, dai. Quando sollevò lo sguardo, le luci degli stop del furgoncino erano ormai così vicine che Manuel non fece neppure in tempo a staccare il piede dall’acceleratore. La Yaris si schiantò in piena velocità, e lui vide, come in una scena al rallentatore, il cellulare volare via dalla sua mano e frantumarsi sul parabrezza, mentre il fragore lo assordava. Poi non vide più nulla, neanche i passanti che correvano verso di lui.

Carmen sorseggiava il caffè seduta al tavolo della cucina quando sentì un colpetto alla finestra. Si girò e lo vide: il gatto nero era proprio lì, seduto sul davanzale, gli occhi gialli e ipnotici che la fissavano. Lei si alzò, aprì la finestra e il gatto saltò all’interno. «Entra, Diablo, hai avuto una mattinata agitata, non è vero?». Il gatto saltò sul tavolo e miagolò. Carmen aprì la dispensa e prese una ciotola e una scatoletta. «Sarà meglio che tu non ti faccia vedere in giro per un po’, piccolo». Aprì la scatoletta e versò il contenuto nella ciotola. «Certo che sono tipi strani, gli esseri umani» continuò, «sempre a riempirsi la bocca con la storia della libertà, nessuno tocchi la loro libertà, la Costituzione, e tutto il resto. Vogliono decidere con la loro testa, e guai a chi si mette in mezzo. Poi però, ogni volta che le cose vanno male, non se ne ricordano più, della loro sacrosanta libertà, e si mettono a dare la colpa a destra e a manca. La sfortuna, la iella, la fatalità, il destino, la giornata storta. Sono capaci di prendersela con una creatura innocente come te, pur di non dare la colpa a sé stessi, non è vero, Diablo?». Poggiò la ciotola per terra e il gatto si mise subito a mangiare di gusto. «Capaci di prendersela con te, ma anche con me, lo sai?», continuò Carmen sistemandosi il foulard in testa. «In altri tempi mi avrebbero dato la colpa di questo e altro. Sul rogo saremmo finiti tutti e due, altro che storie. Ma la colpa a sé stessi mai, oggi come nel Medioevo. Meglio così, non trovi?». Diablo miagolò soddisfatto.

In quel momento il citofono suonò, e Carmen rispose: «Chi è?» «Buongiorno, sono la signora Villa, cercavo Carmen, la cartomante, ho un appuntamento». «Terzo piano», rispose lei.

Schiacciò il pulsante per aprire il portone e si avviò verso l’ingresso, sistemandosi i grossi orecchini ad anello.

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